Ecuador, cose da fare: il treno delle Ande
E' ancora buio, arriviamo alle 6 in punto e c'è già gente in coda che attende il via per salire sul tetti dei vagoni. Ci accomodiamo sul lato destro (se volete godere delle viste migliori è questo il lato da occupare, non dimenticatelo); alle 6.30 i posti sono pressochè esauriti. Saremo - occhio e croce - in 200 accucciati sui tetti. Dopo un paio di fischi - che probabilmente avranno svegliato tutto il circondario - puntualissimo il treno parte attraversando lentamente il paese. Il sole comincia a far capolino e, prepotente, emerge la cima del Chimborazo con la cima innevata sfumata in rosa: il cielo è perfettamente terso ed è uno spettacolo unico!
Il cammino si svolge, nel primo tratto, attraverso le coltivazioni della piana di Riobamba; mano a mano che si prosegue, il verde delle piantagioni lascia il passo a terreni secchi dove le misere irrigazioni tentano di rendere fertile la sabbia lavica. Solo le aghifoglie ed i cactus la fanno da padrone. Si costeggia per diversi tratti la Panamericana, quasi deserta se non fosse per i frequenti e colorati bus che sfrecciano strombazzando al nostro passaggio. Il sole comincia finalmente a scaldare.
Il paesaggio è sempre più ostile e arido, non per questo i panorami sono meno avvincenti. In queste lande desolate, si incontrano casupole di contadini che sopravvivono (di meglio non saprei immaginare) con qualche scampolo di mandria: a volte mucche, a volte pecore ma anche lama. C'è un torrente, laggiù in fondo alla gola, ma è come un miraggio: impossibile arrivarci, impossibile pensare di prelevare acqua. La poca irrigazione presente proviene da torrentelli o rivoli che saltuariamente solcano i fianchi scoscesi d'origine lavica di queste catene: piccoli solchi zigzaganti scavati nel terreno che riescono a distogliere parte di quella ricchezza e a destinarla a misere coltivazioni.
Frequente l'incontro di bambini che si appostano lungo la ferrovia; salutano sorridenti nei loro stracci colorati, alcuni con le mani tese. Ora capisco cosa voleva dire quella signora che percorrendo i tetti dei vagoni offriva (oltre a acqua e biscotti o cioccolate) lecca-lecca, caramelle e cose del genere, ripetendo frasi incomprensibili: spingeva all'acquisto del dolciume per - letteralmente - lanciarlo dal treno a quelle mani tese. E così avviene da parte di tanti turisti: alzo del braccio, attira l'attenzione, lancio del lecca-lecca mentre i piccoli corrono per arrivare primi. E i turisti che ridono divertiti. Che tristezza di spettacolo......
A Guamote il treno effettua una prima sosta. Tutti ne approfittano per scendere a rifocillarsi e sgranchirsi le gambe: siamo circa metà del percorso e le nobili parti sono indolenzite nonostante il cuscino a difesa.....
Riprendiamo il viaggio, mentre i fianchi delle due catene montuose piano piano si avvicinano fino a dar l'impressione di voler ingoiare il treno e i binari. La ferrovia è scavata di misura sul fianco di una di queste catene, non c'è spazio dopo il binario, solo un lungo strapiombo che termina nella stretta gola dove si può intuire il passaggio di un torrente per la presenza di una striscia continua di verde. Ormai abbiamo lasciato alle spalle anche quei minimi segni di presenza umana, ora ci sono solo lunghe piante grasse penzolanti dalle pendici incombenti, cactus e arbusti.
L'ingresso ad Alausì è preannunciato da un lungo fischio della locomotiva, in attesa c'è un gruppo di turisti dallo sguardo perplesso alla vista dei tetti stipati. In qualche modo riescono a salire e si riparte. Si saranno percorsi forse un paio di km. quando il treno rallenta e si ferma. C'è movimento: il capotreno e alcuni addetti vanno avanti e indietro controllando i vagoni; sul momento non si capisce il perchè, ma quando si fermano ad indicare un carrello nascono i primi dubbi poi confermati da alcuni curiosi scesi dal tetto: è deragliato un vagone. Nemmeno ce ne siamo accorti! Nessun problema, i ferrovieri sono abituati ed attrezzati: passa una mezzora e il carrello torna al suo posto: il traino della locomotiva "costringe" il carrello a salire su una mezzaluna in acciaio (una sorta di binario portatile) che i macchinisti avevano spinto a suon di mazzuola sotto alla ruota. Fischio perentorio e si riparte.
Questa parte del cammino, da Alausì fino giù in fondo alla gola, è conosciuta come la Nariz del Diablo, un ripido percorso che si compie a passo d'uomo e quasi in continua frenata. I fianchi delle montagne sfiorano i vagoni, ti allunghi e quasi li potresti toccare, poi lasciano il posto a strapiombi vertiginosi. In un paio d'occasioni, si procede a zig zag: la locomotiva si addentra su un binario morto, si manovra lo scambio a mano, e poi in retromarcia spinge i vagoni. Poco più in là la scena si ripete finchè arriviamo alla base della Nariz del Diablo, una vallata arida e lunare. Siamo scesi a 1.800 metri, in 10 km (tale è la distanza da Alausì) abbiamo passato un dislivello di oltre 800 metri, percorrendo i fianchi delle montagne! Lentissimo il treno torna sui suoi passi, altri zig zag con cambio di marcia ed eccoci ad Alausì, questa volta per scendere definitivamente.