Australia, Red Centre: luoghi da visitare, cose da fare
Ci eravamo lasciati ieri sera con la cena al Mindil Beach Night Market di Darwin, l’ultima notte nel Top End prima del salto, con volo aereo, nel Red Centre. Bene, questa mattina l’aereo alle 9.20 ci sbarca puntualmente ad Alice Springs; ad attenderci, già prenotata, la jeep che ci farà compagnia per i prossimi 7 giorni di esperienza desertica: fortunatamente è un veicolo identico al precedente, quindi l’avvio del viaggio è nel segno della massima continuità.
L’orientamento è facile sia per la presenza di adeguate segnalazioni stradali sia perché Alice Springs di fatto è poco più di un paese (25.000 abitanti) e ciò facilita l’individuazione della Lassiter Highway, la strada che ci condurrà verso il cuore del Red Centre. La circolazione stradale è resa semplice dallo scarso traffico e dalle ottime condizioni stradali, quindi si arriva alla prima meta, Simpson Gap, in poco più di mezzora. Spira un vento freddo (clima ben diverso dalla settimana precedente nel Top End!) mentre ci incamminiamo a piedi sul brevissimo e facile tragitto sulla sabbia che ci porta alla gola mentre, ai lati, due alte pareti rocciose, dalla tipica colorazione rosso intenso, scendono verticali. Alla fine, dove la gola si fa più stretta, c’è un solitario laghetto, dell’ abituale color smeraldo, e un ampio tratto di sabbia che per metà lo circonda. Il verde della vegetazione fa da sfondo al taglio della gola dietro la quale si perde il laghetto. Guardando l’altezza delle pareti di roccia, levigate dallo scorrere del torrente nei periodi delle (poche) piogge estive, si rimane stupiti di come l’acqua possa tanto. Sessanta milioni di anni, dice un cartello poco distante, tanto ci è voluto perché pazientemente il rivolo d’acqua incidesse la roccia per tutta la sua altezza. Lo stesso cartello racconta di wallabies delle montagne che dovrebbero vivere su questi speroni ma, per quanto si guardi con attenzione non ne vediamo traccia concreta (se per tale non si vuole intendere i mucchietti di escrementi e le impronte sulla riva del lago). Impareremo ben presto che questi animali tendono ad uscire dalle tane verso l’imbrunire.
Si prosegue nel cammino stradale per arrivare a Standley Chasm, non molto distante, mentre il panorama sui West MacDonnell si fa sempre più interessante e selvaggio. La strada è un rettilineo che si perde all'orizzonte affogando nelle pendici della catena montuosa, tutto intorno la sabbia rossa interrotta da una vegetazione rada e spiniflex. Dopo un agevole percorso di circa mezzora nella boscaglia, arriviamo ai piedi di un massiccio che lì per lì non dice molto di particolare …… se si esclude l’asprezza dei luoghi, il forte e bellissimo contrasto fra la roccia rossa e le silhouettes degli alberi – abbarbicati alla roccia - che si stagliano nel cielo turchese. Il pezzo forte è però appena dopo l’ultimo gomito di questo tortuoso sentiero: un taglio verticale, nella roccia a strapiombo, della larghezza di 3.. forse 4 metri. Un piccolo e stretto canyon, una gola frutto dell’erosione di acque dei tempi che furono, e sullo sfondo poco distante un'altra parete rocciosa ci impedisce la vista ma contribuisce a completare l'aspro e singolare paesaggio. Per gustare lo spettacolo vero occorre aspettare che arrivi mezzogiorno : è il momento in cui i raggi solari riescono a penetrare la gola per tutta la sua profondità, fino a scaldare le rocce situate alla base. Raggi che modellano le pareti con giochi di luci ed ombre, colore della roccia ed illuminazione che cambia mano a mano che l’ombra si ritira dal “pavimento” per distendersi sui lati scoscesi. Dura poco, questo è vero, in mezzora tutto è finito e la gola torna nell’ombra, ma è uno spettacolo da non perdere e, per questo, Standley Chasm è richiamo di diversi turisti.
Torniamo sulla Namatjira Drive, è rettilinea ma il suo saliscendi che si perde all'orizzonte la fa assomigliare ad una liscia corrente sulle onde di un mare mosso ma non agitato; la tentazione di affrontarla in velocità per provare l'ebbrezza dell'effetto delle onde è tanta ma il rischio animali è sempre presente, quindi preferiamo goderci i dintorni. Ci trasferiamo dalle gole rocciose e coreografiche ad un lago naturale altrettanto pittoresco: è Ellery Creek Big Hole, situato a 15 minuti di camminata leggera dal parcheggio. Il leitmotiv è ancora quello, pareti rocciose nerastre o tendenti al rossiccio a strapiombo su un lago tranquillo e, in questa stagione, non alimentato: a differenza di Standley Chasm queste sembrano rocce spaccate da un gigantesco scalpello dal tanto che le pareti sono irregolari e tormentate. Lingue di sabbia e una modesta vegetazione contornano un luogo ideale per un tuffo o un picnic (le strutture, come ovunque, non mancano) mentre sullo sfondo la catena montuosa sembra far da tappo al lago.
Serpentine Gorge, basta il nome. E’ una stretta gola a sviluppo sinuoso che costringe e conserva le acque delle piogge estive, sulle pareti diversi alberi con caparbietà sono cresciuti e resistono; la si raggiunge in jeep su un dissestato tragitto e dopo una sgambata di circa 1,5 km.
Proseguendo nel cammino, arriviamo nel tardo pomeriggio a Ocre Pits, una costa di montagna caratterizzata dalla forte presenza di sedimenti di ocra gialla, bianca, rossa…… E’ la materia prima con la quale (grattata e impastata con acqua) i nativi usavano e usano tuttora per dipingersi il corpo per i loro rituali, ma non solo: anche i capelli intrisi di questo impasto, poi le tele evocative di scene di caccia, riti tribali e momenti di vita quotidiana, per non dimenticare le pitture rupestri, autentici capolavori di 20 ed oltre migliaia di anni prima. Arrivandoci poi con il sole più radente del pomeriggio o addirittura al tramonto, il calore di questi colori in contrasto con il cobalto del cielo consegna impressioni e immagini che entusiasmano. Il luogo solitario e silenzioso contribuisce alla magia dei colori.
Anche se la distanza è breve e la strada scorrevole, chiudiamo la giornata a Ormiston Gorge un po’ tardi per apprezzarla in pieno in quanto alcuni raggi di sole già non riescono a passare l’alto costone roccioso che incombe sul lago. Questa volta l’acqua è abbastanza putrida ed emana in alcuni luoghi un odore sgradevole, ma ciò che ci circonda, l’ampia spiaggia, le rocce dai diversi colori a strapiombo e la presenza di un gruppo di wallabies delle montagne (finalmente li vediamo!) compensa in parte la luce che va mano a mano scemando. Simpatici questi marsupiali, alti una sessantina di centimetri sono proprio dei canguri in miniatura. Avvicinarli, se lo si fa lentamente e senza movimenti bruschi, non è difficile, si arriva anche a 4 – 5 metri prima di vederli scattare, saltellando leggeri da una roccia all’altra, con la stessa disinvoltura con la quale noi bipedi siamo abituati ad andare al bar al mattino: con l’unica differenza che anzichè avere solido e piatto marciapiede qui sotto le zampe ci sono piccoli spuntoni di roccia e appena sotto il vuoto ……
Lasciamo i wallabies mentre il sole tramonta definitivamente infuocando la cresta dei West MacDonnell sullo sfondo e una coppia di solitari turisti prepara il campo per la notte: il barbecue è già ardente, immagino da lì a poco che cosa ne sarebbe uscito.........
Arriviamo al Glen Helen Resort, dove ci fermeremo per due notti, che sono le 18.30; è buio, ma il tragitto sapevamo che sarebbe stato brevissimo, appena 4 km., quindi nessuna preoccupazione per questa prima divagazione "notturna" in un territorio sconosciuto. Resort.... è un appellativo diffuso anche in Australia, ma in realtà si tratta di una farm costruita 100 anni prima, in origine dedita all'allevamento di vacche per lungo tempo, poi riattata con la trasformazione di alcuni edifici secondari a luogo di ospitalità per i turisti. Le camere sono essenziali, come comfort e arredamento, ma siamo in mezzo al deserto e non ci sono alternative per i prossimi 280 km. In fretta e furia scarichiamo i bagagli, rimandando le docce ristoratrici a più tardi in quanto ci avvisano che la cucina da lì a poco chiude e, se chiude, sono dolori (di stomaco!) fino alla mattina dopo. La vita da queste parti e, come avremo modo di imparare, anche nell'altra parte del deserto, si svolge così: cena presto (in alcuni posti anche non oltre le 18.30!) e colazione altrettanto presto. Forse che il detto "il mattino ha l'oro in bocca" sia stato coniato quaggiù? A parte questo, il luogo di raduno comune, cioè il bar con biliardo e sala ristorante, è intimo, caratteristico e con un piacevole focolare che arde. I piatti sono gustosi (la carne grigliata è l'atout della cucina, tenera e succulenta) e abbondanti: proveremo anche il canguro alla griglia, vera novità oltre che piacevole scoperta; una coppia di folk singers allieta il dopo cena con canzoni in puro stile country. E' ormai tardi (sono passate da un pezzo le 21!) e ci incamminiamo alla vicina camera sotto un cielo di stelle che paiono vicine quasi da toccarle, in una oscurità pressochè completa e con la temperatura che se non ha già raggiunto i 6-7° poco ci manca..... Brrrrrr!!
Ma della bellezza di questo posto ce ne accorgeremo l'indomani quando uscendo dalla camera vediamo il gigantesco contrafforte a picco sulla sottostante piana dove c'è la fattoria, i raggi del sole - levatosi da poco - accarezzano questi possenti fianchi conferendo una colorazione pastellata alle rocce rosse mentre lo spiniflex della prateria sembra più biondo del solito.
Fatto il pieno (.... non solo alla jeep), partiamo in direzione ovest che non sono ancora le 8, c'è freddo ma la giornata è limpida e presto i raggi solari riusciranno a stemperare questo clima mattutino. Passano poche centinaia di metri e siamo sullo sterrato che ci accompagnerà "solo" per i prossimi 150 Km. in quanto oggi faremo il loop Namatjira - Larapinta - Namatjira passando per Hermannsburg e torneremo al resort quando la sera sarà già calata e, ancora una volta, appena in tempo per la cena.
Lo sterrato della Namatjira si percorre bene (se si ha un 4WD), la strada è abbastanza dissestata con diverse buche e tratti sabbiosi che prendono lo sterzo ma le forti ruote e la trazione integrale consente una marcia tutto sommato veloce, si riescono quasi sempre a tenere i 70 - 80 km/h. Saltiamo l'incontro con Redbank Gorge (lo faremo domani quando rifacendo questa pista ci dirigeremo a Kings Canyon) e percorriamo una settantina di km. mentre il paesaggio che scorre ai lati della pista è ormai quasi lunare, terre rosse, aride e aspre dove l'unica vegetazione a uscirne vincente è l'onnipresente spiniflex. Un bellissimo esemplare di stallone nero di guardia ai bordi della strada ci costringe a rallentare: la mandria è lì, a pochi passi da noi, ma sono cavalli selvaggi e non ci è possibile avvicinarli più di tanto. Fuggono al trotto, sulle orme dello stallone, verso l'interno del deserto. Arriviamo a destinazione, senza aver incrociato un veicolo, dopo una 6 km di pista ostica che la jeep non fatica peraltro a digerire, siamo a Gosse Bluff. Un breve tragitto piano a piedi e siamo all'interno di un cratere vecchio di 140.000.000 di anni: ciò che rimane di quell'epoca e dell'impatto di un meteorite (stimato dal diametro di 1 km) è una cresta rocciosa irregolare e circolare al cui centro vegetano sterili arbusti. Saliamo dove possiamo per apprezzare meglio la circolarità dell' onda d'urto, il paesaggio ovunque intorno è arido e ostico.
Riprendiamo la Namatjira Drive e il suo fondo polveroso e sconnesso per lasciarla, una decina di km dopo, dirigendoci sulla Larapinta Drive verso Hermannsburg. Il paesaggio è "monotono", nel senso che è sempre lo stesso affascinante, aspro e selvaggio territorio.
Siamo a 125 km. da Alice Springs, la pista è finalmente terminata.
Hermannsburg è un piccolo centro aborigeno che conta meno di 500 abitanti; il centro dell'abitato è la missione, fondata verso la fine dell'800 da padri luterani tedeschi che vollero omaggiare la madre patria attribuendo all'insediamento il nome della città tedesca. L'edificio è ben tenuto ed offre ancora diversi locali ben conservati nello stato originale, al suo interno vi potrete rifocillare e fare acquisti delle tele dipinte dai nativi del luogo; all'interno del recinto della missione, altri edifici che hanno un certo interesse storico e che sono nel tempo stati adibiti a diversi scopi: il negozio del fabbro, la cappella mortuaria, la chiesetta, la scuola, il magazzino di vendita delle derrate... In uno di questi sono esposte diverse opere di Albert Namatjira, artista nativo assai famoso per i suoi acquerelli con i quali sapeva trasmettere tutte le sensazioni che il Red Center sa dare a chi lo attraversa; fu con il ricavato delle vendite di queste impressioni di vita che riuscì a dare sostegno economico a diversi membri della sua comunità. Fu anche il primo aborigeno al quale venne riconosciuta, per i suoi meriti, la cittadinanza australiana, ma ne potè beneficare per poco: nel 1959 moriva all'età di 57 anni. Appena fuori dell'abitato, c'è una stele commemorativa di questo grande pittore mentre, poco prima di Hermannsburg venendo dalla Namatjira, si può visitare la minuscola casa che per lungo tempo lo accolse.
Trascorriamo un paio d'ore fra questi edifici raccontati da targhe, prima di imbarcarci nella impegnativa avventura sulla pista che ci porterà a Palm Valley: pista stretta, pietrosa, ghiaiata, sabbiosa, si percorre il letto secco del torrente, insomma c'è di tutto; alla fine, si apre una stretta gola con pareti di roccia rossa, grandi eucalipti e imponenti palme su un fondo di sabbia, alcune pozze di acqua residuo della stagione delle piogge. C'è un tracciato che consente di salire sulla cresta della gola e la percorre per la sua lunghezza: ne percorriamo una buona parte riuscendo così ad ammirare anche dall'alto questo spettacolo singolare del palmeto nel deserto.
Il sole è ormai inclinato ad ovest quando torniamo alla jeep per ripercorrere in senso contrario questo tratto per poi dirigerci velocemente sull'asfaltata Larapinta, a questo punto senza soste, fino all'incrocio con la Namatjira; l'imbocchiamo quando ormai siamo vicini all'imbrunire e i raggi del sole modellano i fianchi delle aride montagne, per arrivare, infine, al Glen Helen Resort quando l'ultimo chiarore del cielo lascia spazio alle prime e più luminose stelle. Un'altra giornata di avventure, scoperte ed emozioni.
Questa mattina ci aspetta un lungo trasferimento, dobbiamo arrivare al Watarrka National Park e al suo principale polo d'attrazione, Kings Canyon. Sarà una giornata impegnativa, considerati i quasi 300 km., interamente sullo sterrato, che ci separano dalla meta; in mezzo il nulla se non spiniflex, arbusti, qualche roccia e tanta, tanta sabbia rossa. Partiamo che il sole è da poco salito oltre l'orizzonte, l'aria è ancora fredda e pungente.
L'unica sosta programmata è a Redbank Gorge, a circa una ventina di km. dalla partenza e dopo una pista di altri 5 adatta solo ai 4WD. Ciò che avevamo letto, era di una larga gola sabbiosa e costellata di eucalipti rossi (caratteristici per i tronchi che sono di colore bianco) a far da contraltare al cielo blu intenso e all'acqua che avrebbe dovuto scorrervi. Già, avrebbe dovuto, perchè l'unica traccia di acqua era una piccola pozza putrida ma, nonostante questo, l'occhio ha di che ripagarsi!
I km. scorrono senza intoppi, siamo sul Mereenie Loop e il saliscendi della pista è sovente l'unico elemento di movimento di un tracciato che diversamente sembra "tirato" con la riga. Anzi, no! C'è qualcosa d'altro che dà movimento: due puntini, uno giallo e l'altro rosso, che in lontananza vediamo oscillare quasi con una andatura da ubriaco. Incredibile: sono due trotter su mountain bike! Un lui e una lei che carichi di zaini e sacco a pelo arrancano sul tracciato ostile di sabbia, sassi e corrugamenti. Rallentiamo per non inondarli di polvere osservandoli con curiosità, hanno ancora la forza di salutarci sorridendo! Certo, l'esperienza su due ruote probabilmente è il meglio che ci possa essere ma francamente.........
La fine della pista ci avverte che, finalmente, siamo vicini alla meta. Tirando le somme, luoghi desolati ma affascinanti e selvaggi, una bella esperienza, fuori dal comune ma con rischi tutto sommato contenuti anche se gli automezzi incrociati in questi 300 km. li abbiamo contati sulle dita di UNA sola mano.
L'unico centro abitato di questo immenso parco è... un camping con stazione di servizio e minimarket, il nome è sicuramente ambizioso, Kings Canyon Resort ma è bello, curato e ben organizzato con tende ordinatamente disposte e alcune file di bungalow. L'ampio parcheggio con il distributore di carburante completa l'..."arredamento" del posto. E' abbastanza animato in quanto Kings Canyon oltre che essere una delle principali attrattive del Red Center è anche facilmente raggiungibile (200 km., venendo da est, cioè dalla Stuart Highway) su strada asfaltata. Ma non è qui che pernotteremo.
E' pomeriggio, ci dirigiamo al vicino canyon che austero e potente si alza dalla vegetazione sottostante. Al parcheggio incontriamo una singolare carovana: una decina di auto d'epoca impolverate (avranno certamente più di 40 forse 50 anni, hanno ancora l'avviamento a manovella) è schierata nel parcheggio ai piedi del canyon. Sydney - Uluru - Darwin cioè sud - nord: non è una lezione di geografia è il tragitto che stanno percorrendo! Si tratta di ben 5.000 e passa km!!
Tanto per non perdere l'abitudine alle camminate e sgranchirci le gambe, per chiudere la giornata percorriamo il breve sentiero nel letto sassoso del torrente (in questa stagione a secco ma punteggiato da cespugli fioriti) che si inoltra dentro la gola. E' uno spettacolo impressionante: pareti rocciose di un colore rosso vivo e che sembrano tagliate da una mano esperta, incombono in tutta la loro altezza, oltre 100 metri. Alla fine del percorso una breve scalinata con belvedere, opera dell'uomo, ci consente di spaziare con la vista sopra le chiome degli alberi per vedere in tutta la sua prorompente maestosità il canyon. Spettacolo appagante, ma ancora non abbiamo idea di quanto sarà più coinvolgente ciò che vedremo domani.
Prendiamo tempo fin che la luce ce lo consente, per poi tornare sui nostri passi e voltare la jeep in direzione Kings Creek Station; ormai siamo vicini all'alloggio, mancano solo 50 km.
Se il Resort era un campeggio, Kings Creek Station è una tendopoli. Qui, in effetti, le camere (rigorosamente solo da due posti) altro non sono che tende dalla forma della casetta di memoria infantile e che probabilmente tutti noi abbiamo disegnato da piccoli. Ordinatamente disposte in file parallele, sembrano quasi il paese di Barbie se non fosse per la classica sabbia rossa che le circonda. Certo che la privacy se ne va a pallino, nel silenzio assoluto del deserto ascoltiamo con facilità ciò che si dice nelle tende a fianco, ma la cosa non disturba. Oltre alla tendopoli, in questo camping c'è anche un allevamento di dromedari e di canguri, carburante e un elicottero per i tour aerei sul canyon. Luogo simpatico, essenziale ma godibile. La notte è bellissima qui, il silenzio è assoluto (passeresti le notti alzato solo ad ascoltare il suono del vento, assomiglia ad un treno che passa in lontananza ) il buio è totale ma le stelle brillano eccome se brillano senza dimenticare i colori che assume l'orizzonte al tramonto. Ma la notte è anche fredda, molto fredda, ed impariamo velocemente perchè in ogni tenda - oltre ai panni pesanti - c'è in dotazione un termosifone elettrico. Senza quello, i panni non bastano.......
Vita genuina, schietta e da allevatori quindi, forse fin troppo: cena, panini e poco più, entro le 19 (e non siamo ancora al record!) nel fabbricato comune, mentre la colazione è .... all'aperto sotto una tettoia! Se carburare la mattina quando vi alzate è il vostro cruccio, qui è garantito che in quattro secondi siete a mille. Ma anche questo fa parte della vita naturale di questi luoghi.
L’uscita di oggi sarà memorabile, già ce lo sentiamo. L’abbiamo intuito ieri, guardando quei lontani puntini che si muovevano a passi lenti ed apparentemente sul bordo della gola. Percorrere l’intero canyon, vederlo dall’alto dei suoi costoni rocciosi sarà sicuramente un percorso avvincente per gli scenari che si apriranno sotto di noi. E’ con questo spirito che con una sveglia di buonora arriviamo, attraversando un paesaggio che è ormai "monotono" nella sua spettacolarità di distese rosse interrotte da cespugli di spiniflex e cavalli bradi al pascolo, sotto le pendici di sua maestà Kings Canyon, centro di attrazione del Watarrka National Park.
Sapendo che l’intero percorso di quasi 7 km ci avrebbe impegnato per 5 ore (i cartelli di documentazione recitavano di 6 ore ma nei giorni passati avevamo imparato che sono tempi laschi, evidentemente gli australiani hanno il passo più lento del nostro), siamo adeguatamente attrezzati in fatto di viveri. La parte iniziale del tracciato (che rimarrà adeguatamente segnalato per tutta la sua lunghezza) è sicuramente la peggiore, la più impegnativa: c’è una forte pendenza, la salita è molto ripida e faticosa; per quanto il fondo del sentiero sia stato reso poco difficoltoso ad opera dell’uomo, ci si porta in quota (qualcosa più di cento metri) in pochissimo spazio. Non ci si guarda tanto attorno, siamo più concentrati a reggere lo sforzo e a guardare dove si mettono i piedi onde evitare i rischi di un ruzzolone che avrebbe probabilmente causato conseguenze non piacevoli.
Ma è finito questo strappo iniziale che, ancora ansimanti, quasi si perde il poco fiato rimasto guardandosi attorno. Complice anche una delle abituali splendide giornate terse e luminose, l’occhio spazia su tutto il territorio circostante e fino all’orizzonte. Una vista grandiosa che quasi riesce a far dimenticare il freddo della mattina, reso ancora più pungente dal vento che spira senza sosta. Da qui in poi, il tracciato si sviluppa pressoché totalmente in piano e senza alcuna difficoltà. Ma, questo, non significa che percorrerlo sia esente da pericoli: prima di tutto si cammina quasi sempre vicini al bordo e non esistono protezioni dal sottostante baratro, poi le folate di vento rischiano di far perdere l’equilibrio e lì sotto ci sono 100 metri di vuoto……. Certo ci si deve scordare di guardare i panorami e gli scorci sul sottostante canyon mentre si cammina, ma il tutto si traduce in una piacevolissima e coinvolgente passeggiata interrotta da diverse soste. Attraversiamo platee di rocce letteralmente segnate dalle fini e fitte ondulazioni scavate dallo scorrere ultramillenario di acque piovane; procediamo in mezzo a spaccature rocciose dove il vento infrangendosi da millenni ha modellato le asperità. Quattrocento milioni di anni, è il tempo che la natura ha impiegato per plasmare questa opera d’arte.
Ad un certo punto la sorpresa: in una spaccatura della roccia si intravedono chiome di palme! Non siamo sul fondo del canyon ma in alto e questa vegetazione è fuori luogo, come possono vivere e crescere delle palme su questa roccia. Il mistero è spiegato da un sentiero che indica Garden of Eden. Il nome è veramente azzeccato: incastonato a mezza altezza fra pareti di roccia levigata a strapiombo, un laghetto che si è evidentemente formato con le precipitazioni e, lungo una lingua d'acqua che si insinua fra le rocce, una folta vegetazione e, appunto, il palmeto. Questi posti non finiscono mai di stupire...... E così, procedendo fra sentieri, rocce ed alcune scalinate per i punti più impossibili, scavalcando il punto più stretto del canyon con un ponte steso sul sottostante baratro, passiamo sull'altro lato e proseguiamo sul percorso. Siamo solo a metà strada ma che importa è tutto così bello, i colori cangianti delle pareti, i panorami, i contrasti con il cielo.
Rientriamo a Kings Creek Station dopo una breve sosta a Kathleen Springs, una piccola gola chiusa caratterizzata da una prateria e cespugli fioriti che traggono sostegno da un piccolo laghetto semi coperto dalla bassa vegetazione. C'è ancora il tempo per un viaggetto in elicottero, anzi è il momento migliore perchè il sole è abbastanza basso all'orizzonte e i raggi modellano le rugosità del terreno e le ombre ne accentuano la tridimensionalità. Il pilota ci indica, in lontananza, Hayers Rock e the Olgas (dove saremo domani): sono circa 150 km in linea d'aria ma le silhouettes dei due monoliti si distinguono bene. Il Kings Canyon, visto da quassù è una piccola ferita nella vastità del deserto. Un'altra giornata memorabile si è conclusa,
Il piano di viaggio per la giornata odierna, prevede il trasferimento a the Olgas (Kata Tjuta per i nativi) su 280 km di strada asfaltata, un sentiero fra gli anfratti del monolite per chiudere con il primo dei due memorabili tramonti. Dalla Luritja road, procediamo lungo la Lasseter Highway, la strada che porta alle due rocce sacre, per fermarci dopo una cinquantina di km. a Curtin Springs, la farm dove pernotteremo per 2 notti, questa volta il luogo è più animato e attrezzato, le camere sono in prefabbricati di fattura a container, ampie pur mantenendo una certa spartanità di arredamento. Per ora siamo solo di passaggio, scarichiamo le valigie, li informiamo dei nostri programmi e del conseguente rientro nella nottata poi proseguiamo.
Lasciamo sfilare sulla sinistra il monolito di Ayers Rock, al quale dedicheremo l'intera giornata di domani, mentre prende sempre più forma The Olgas. Già a vederle in distanza queste formazioni rocciose colpiscono, si ergono dalla landa piatta e desertica con la loro mole maestosa e levigata nella tipica colorazione rossa; tutta questo area forma l'Uluru - Kata Tjuta National Park, è di proprietà indigena oltre che luogo sacro.
Kata Tjuta o the Olgas che dir si voglia, è la sorella maggiore con i suoi 540 metri di altezza, è meno famosa di Uluru e, a mio parere, ampiamente a torto. E' un gruppo di gobbe levigate dal tempo che possiedono una magia strana, un senso di mistero. Sensazioni che si accentuano quando percorriamo il lungo sentiero (quasi 8 km.) noto come Valley of the Wings che si insinua fra queste gobbe. Il silenzio assoluto, il suono del vento, il canto di qualche uccello invisibile nella vegetazione e le diverse colorazioni e forme che assumono le rocce a seconda di come le si guardi e di come le illumini il sole, fanno di questo luogo un'esperienza irrinunciabile. Nettamente più forte e suggestivo del vicino monolite di Uluru ma, fatto strano, è là che il turismo si riversa in massa ed è meglio così. Certo, questo percorso non è uno scherzo, non è difficile ma sicuramente è faticoso, per la distanza da percorrere ma ancor più per come, in alcuni punti, si inerpica o procede accidentato fra le pareti che incombono; tuttavia ciò se si riesce a vedere, e non solo a vedere, ripaga ampiamente gli sforzi. Ma dove danno il massimo, questi monti, è al tramonto, quando la roccia cambia colore mano a mano che il sole scende fino ad assumere un colore di fuoco, letteralmente, con gli ultimi raggi. Spettacolo che abbiamo seguito tutta la sua bellezza da un'area poco distante insieme ad alcuni australiani meditatori (comodamente adagiati su poltrone da campeggio sorseggiavano vino bianco in calice) e un folto gruppo di turisti giunti appositamente ed altrettanto frettolosamente caricati sul pullman alla fine della rappresentazione della natura.
Ci fermiamo per la cena all’Ayers Rock Resort, situato a pochi dall’omonimo monolite. E’ un centro turistico vero e proprio e di grandi dimensioni anche, con diversi tipi di sistemazione (dal camping all’appartamento, all’hotel), ristorante, banca, ufficio postale, supermarket, negozi souvenir etc. etc. I prezzi sono assolutamente alti, per questo la nostra scelta era caduta su Curtin Springs, anche se distante 50 km., più tranquillo e, fra l’altro, anche più intonato con il contesto.
Il viaggio di ritorno al nostro alloggio, lo si fa a velocità ridotta, sui 70-80 km/h, perché è proprio di notte che gli animali escono allo scoperto, incuranti della strada, rischiando lo scontro con i veicoli e, oltre a rischiare la loro vita, è facile danneggiare il mezzo se non addirittura i viaggiatori. In effetti già dalla mattina avevamo avuto modo di osservare un buon numero di carcasse lungo i bordi della Lassiter Highway. Tuttavia nulla di questo è successo, nel senso che la prudenza è servita: alcune mucche al pascolo sulla strada, canguri (anzi, probabilmente erano wallabies, vista la taglia) e un dingo: questi gli incontri notturni.
Abituale sveglia mattiniera e la sorpresa: la colazione è servita all’aperto! Se in qualcuno di noi c’era ancora qualche traccia di sonnolenza, l’aria fredda del mattino ha reso attivi in pochi secondi. Oggi è il giorno dedicato alla perlustrazione al monolite, zona che dalla farm raggiungiamo in mezzora. Fermiamo la jeep, che in questa zona è inutile, nel parcheggio ai piedi del monolite proprio nel punto dal quale è “possibile” arrampicarsi fino in cima ad Ayers Rock (cioè fino a 350 metri).
Su questa possibilità di salire sulla vetta vanno dette alcune cose. Come avevo scritto, tutta l’area è sacra per i nativi e anche la documentazione che viene consegnata all’ingresso del parco invita a non salire sulla cime (sia qui che a Kata Tjuta); la cosa singolare è che ai piedi dell’arrampicata c’è un cartello che (avvisando della sacralità del luogo ed invitando a non salire) ammonisce sulla difficoltà della salita (ma per motivi di sicurezza fisica, prima contraddizione) e sulla necessità di non soffrire di malattie cardiache, di avere adeguata scorta d’acqua, etc. etc.; poi siccome l’ascesa è veramente dura (si sale in perfetta linea retta con una pendenza molto, ma molto, forte, quindi è anche pericolosa), per un buon tratto della via che porta alla cima c’è una sorta di corrimano (seconda contraddizione) fatto di catene sorrette da paletti. Non è certo questo il modo per dissuadere i turisti dal salire: certamente da là in alto si godrà di un panorama bellissimo, ma la nostra scelta, per quanto fossimo in grado di affrontare il percorso, è stata quella di rispettare i nativi. Altrettanto non hanno fatto i diversi turisti (durante la mezzora di sosta ne ho contati 54, fra quelli che salivano e quelli che scendevano).
Abbiamo quindi optato per il sentiero che gira tutto attorno alla montagna, una comoda passeggiata in totale relax di 10 km. (i più pigri possono fare il giro in auto, sulla strada che poco distante corre quasi parallela al sentiero, ci sono diverse aree di sosta). Anche qui come a Kata Tjuta, ciò che più colpisce è come il colore della roccia e le pareti del monolite cambino aspetto a seconda dell’angolazione di veduta e quello di incidenza dei raggi solari; esperienza sicuramente piacevole ma meno “sentita” di quella di ieri. Forse sarebbe stato meglio invertire l’ordine di visita.
Fra sentiero principale, deviazioni, soste e pausa sandwich (che ci siamo procurati alla farm il mattino prima di partire), arriviamo al punto di partenza nel primo pomeriggio. In attesa del secondo spettacolare tramonto, facciamo visita al Cultural Center che sorge a circa 1 km. di distanza; è un centro di documentazione e narrazione sulla storia, cultura e religione dei nativi di sicuro interesse per chi vuole meglio comprendere questa realtà. Possibilità di fare acquisti di oggetti originali (in particolare didgeridoo, tele, figure intagliate nel legno ) e meno originali nei due shops presenti.
Il tramonto, dicevo del tramonto: lo spettacolo è in tutto e per tutto simile a quello visto ieri a Kata Tjuta, il rosso delle rocce che progressivamente si accende e poi si incendia mano a mano che cala il sole mentre l’ombra si allunga e si scurisce ai piedi del monolite fino a farlo quasi sembrare sospeso a mezzaria. Anche questa esperienza non è da mancare, ma la condividerete con almeno altri 150-200, o forse più, turisti: c’è poco da dire, Ayers Rock è meno magnetica, ciò nonostante è più turistica.
Ancora una volta, cena nel complesso turistico dell’Ayers Rock Resort e rientro con le solite e già note cautele e incontri con i soliti e già noti frequentatori della notte.
Il giorno seguente è pressoché di puro trasferimento: da Curtin Spring dobbiamo percorrere 250 Km prima sulla Lassiter poi sulla Stuart Highway per arrivare a Stuarts Well dove pernotteremo al Jim's place. Su questo tratto non c'è molto da aggiungere se non le carcasse di canguro lungo la strada, i road train incrociati sulla Stuart Highway e i soliti bellissimi panorami rossi chiazzati dai cespugli di spiniflex. Ce la prendiamo quindi comoda, rimane abbondante tempo per il prossimo tramonto.
A Stuarts Well, Jim's place è l'ennesima farm, organizzata a camping con alcune aree per roulottes e tende e 5-6 bungalows, dispone di un piccolo serraglio dove oziano un paio di canguri, alcuni dromedari ed emù; oltre a dire che quello che ci accoglie è un ambiente assolutamente famigliare e friendly non c'è altro. Tuttavia è molto famoso in Australia per il dingo che possiedono i proprietari. Questo cane del deserto conosciuto come the singing Dingo, ha una particolarità che lo distingue da tutti gli altri: canta! Ma nooooo!! Non si lancia in gorgeggi o scioglilingua velocissimi, però accompagnato con accordi di base suonati al pianoforte da Jim (il proprietario di tutto l'ambaradan), ripete le note musicali con tempo adeguato e buon orecchio. E poi senti dire ..."canta da cani!": Beh, con i dovuti rapporti, ci sono umani che nemmeno se lo meritano questo paragone.
Ci dirigiamo quindi alla vicina Rainbow Valley, dove finiremo la giornata in relax in attesa del tramonto. La valle in realtà è una piana desertica caratterizzata dalla presenza di un lago in secca (in questa stagione) bordato su un lato da una cresta solitaria di arenaria. A mio parere è uno dei migliori scenari del deserto australiano ma è scarsamente frequentato. Penso che sia per il fatto che occorre un 4WD per arrivarci, diversamente non me lo spiegare. Anche di giorno è un luogo che affascina con questo contrasto fra la dura secca sabbiosa (perfettamente liscia e pressochè senza traccia di vegetazione), la cresta rocciosa con diverse colorazioni dal giallino, al beige al rosso e dal profilo a taglio vivo in uno sfondo di cielo azzurro intenso. La solitudine, il silenzio rotto solo dal vento che molesta la spiniflex, completano un quadro di sensazioni forti.
Il clou è però al tramonto, quando il sole riscalda i colori della roccia e allunga ombre sottili sulla secca: l'esplosione cromatica arriva in questi momenti al suo top ed è impossibile pentirsi di essersi fermati. Ritorniamo da Jim, alla farm, che è buio completo (anche se sono da poco passate le 19), dopo aver guidato con l'attenzione richiesta da un viaggio notturno in questi luoghi. Anche se siamo sulla Stuart Highway, la principale arteria stradale australiana, il traffico è rarefatto mai il pericolo sono sempre gli animali che, peraltro, non incontreremo. Un'ottima cena, quella che prepara la cucina di Jim, poi ci rilassiamo con una partita a carte interrotta ben presto dal dingo che ci regala l'esibizione canora che vi ho già descritto.
La mattina seguente il programma prevede una breve puntata nell'East MacDonnell Range, mentre ad Alice Spring dedicheremo la giornata di domani. Arrivati alla città proseguiamo quindi verso est mentre la catena montuosa dei MacDonnell prende sempre più forma e presenza; l'impatto scenico è diverso rispetto al fratello maggiore, c'è meno roccia nuda in vista e un pò più vegetazione boschiva, non ci sono canyon spettacolari, ma rimane un buon soggetto paesaggistico.
La prima deviazione, a circa 80 km da Alice Springs, è per John Hayes Rockhole, un'aspra gola che si raggiunge dopo un tormentato tragitto in 4WD fra scenari selvaggi e un breve tracciato a piedi. Il posto sarebbe un luogo molto coreografico, se fossimo nella stagione calda, con le strette pareti di roccia viva a strapiombo che racchiudono un paio di laghetti ed alcuni eucalipti rossi: la poca acqua rimasta non consente di apprezzare a pieno questo angolo della natura. La successiva e vicina sosta è al Trephina Gorge Nature Park, si raggiunge su una pista sterrata che attraversa un boschetto di eucalipti rossi, nel quale la principale attrazione è costituita dal Trephina Gorge, una valle sabbiosa incastonata fra due file di basse pareti rocciose. Il paesaggio è incantevole con ricchi contrasti cromatici (accentuati dalla presenza di acqua se fossimo nella stagione estiva) fra le pareti di roccia rosso porpora, il bianco dei tronchi e il verde delle foglie di eucalipto, l'azzurro intenso del cielo; nel boschetto all'inizio del breve sentiero, si ritrova l'abituale arredamento da picnic e barbecue attrezzati. In questa zona, avendo ulteriore tempo a disposizione ci sono anche diversi sentieri sui quali avventurarsi. Un luogo particolare nel quale consiglio di soggiornare è il Ross River resort, una fattoria poco distante (circa 25 km ad est del Trephina Gorge) caratterizzata da un ambiente accogliente e costituito da strutture ed arredamenti in parte d'epoca (della fine dell'800), cucina molto valida, personale disponibile, possibilità di pernottamenti. C'è anche un piccolo museo con oggetti e strumenti di lavoro degli originari pionieri che la fondarono più di 100 anni fa. La zona circostante è piacevole, leggermente montuosa, con i boschi di eucalipto che invitano a rilassanti passeggiate.
Finiamo questa bellissima esperienza nel Red Center e nell'outback con Alice Springs, distesa sulle rive del fiume Todd (abitualmente asciutto). Sebbene abbia oltre un secolo di vita, questo centro ha conosciuto il suo vero sviluppo solo in tempi molto recenti, se si pensa che fino agli anni '50 si contavano meno di 1.000 abitanti contro i 25.000 attuali. In origine era una semplice stazione ripetitrice del segnale telegrafico sulla linea che collegava Darwin ad Adelaide e tale rimase per decenni poi conobbe quello sviluppo che la portò all'attuale dimensione; in questo sviluppo credo che abbia inciso parecchio il fatto che la Stuart Highway, in direzione Adelaide, venne trasformata da pista sterrata quale era in nuova strada asfaltata solo nel 1987, L'aver definito "distesa" questa città non è stato un caso perchè qui, come praticamente in tutta l'Australia, gli spazi proprio non mancano: ciò ha consentito un ordinato e piacevole sviluppo urbanistico orizzontale caratterizzato anche da strade ampie e distanze adeguate tra gli edifici, sovente marcate da zone verdi. Il centro cittadino è Todd Mall, una strada pedonale di circa 200 metri, sulla cui lunghezza, unitamente ad alcune laterali, si trova il cuore commerciale e dello shopping turistico.
Volendo visitarla con calma, occorrerebbero almeno un paio di giorni, tempo che non avevamo. Il nostro soggiorno si è aperto con la visita al vicino Alice Spring Desert Park. E' una vastissima area, alla periferia ovest della città, ai piedi dei West MacDonnell Ranges, nella quale sono ricostruiti veri e propri ecosistemi dell'Australia centrale; ci sono voliere con diverse specie di pappagalli del deserto, l'area con i canguri, la vita acquatica popolata da diversi uccelli, ma anche una costruzione all'interno della quale, in una oscurità pressochè totale, le vetrate dei diversi ambienti lasciano scorgere gli animali notturni (roditori, pipistrelli in particolare) nel loro habitat naturale qui perfettamente ricreato. Insomma anche avendo fretta, non si può fare a meno di restare 3.... 4 e più ore in questa sintesi della natura australiana. Entusiasmante, ma ormai siamo agli sgoccioli.....
L'ultima giornata, nell'attesa del volo pomeridiano che ci avrebbe portato a Cairns, è trascorsa a curiosare fra i tantissimi negozi del Todd Mall per poi salire sulla panoramica Anzac Hill (una collina che sorge a ridosso del centro della città e dalla quale si spazia con lo sguardo su tutta la catena dei MacDonnell Ranges e sul circostante deserto), per finire con la visita all' Alice Springs Reptile Centre nel quale sono ospitati alcuni dei serpenti più velenosi al mondo oltre a diverse specie di altri rettili che popolano l'Australia fra i quali c'era pure un solitario e sonnecchiante coccodrillo. Che pena faceva......
Ma ormai è giunta l'ora, alle 14.30 c'è il volo per Cairns, Rimane solo il tempo di tornare in albergo per prendere le valigie e recarsi all'aeroporto per la riconsegna della jeep e il successivo imbarco.